Di solito quelli come il mio sono viaggi che si imboccano solo nella speranza che non finiscano mai. Invece io, incomprensibile ai più, lo avevo accettato pur nella consapevolezza di una fine di cui non sai altro se non che sarà imminente. Viceversa sarebbe stato come troncare una vita per il semplice fatto di sapere che un difetto congenito le assicura una fine breve. Si vive quel che si può, no?
O almeno pensavo che l’avrei vissuta così. Nella consapevolezza che amori del genere non sono fatti per regalarti il compagno di una vita, ma solo un utile momento di crescita. Io, a differenza di qualsiasi altra amante al mondo, l’ho sempre saputo che Giasone avrebbe sposato Creusa, alla fine. E cionondimeno l’ho amato, ho curato le sue ferite, gli ho fatto dono del mio corpo profumato di unguenti, il mio ventre ha generato figli robusti e forti in nome di questo padre guerriero.
Tutto questo porto in bagaglio del mio viaggio. E le salme dei miei familiari, che non avevano saputo vedere la bellezza di questo amore incondizionato. Avevano pensato – bontà loro, credendo di fare il mio bene – di poter ostacolare la portata impetuosa come una calamità naturale del mio sentimento.
Un corpo penzolava ancora sull’altare del tempio, le mosche se ne contendevano i lembi, il sangue bruno gocciolava svogliatamente; e dalla nave degli Argonauti avevo guardato fisso negli occhi del fratello con cui avevo corso a perdifiato lungo i campi della Colchide, luccicanti nei giochi d’infanzia, ora vitrei, vuoti come perduti, mentre il suo corpo a pezzi scivolava dalla poppa lignea a nutrire i pesci del mare verde e ghiacciato dell’Ellesponto.
Doni d’amore, dicevo io.
Un errore, si direbbe ora.
Pagavano il non aver saputo riconoscere la grandezza di quell’amore gratuito e sconfinato. Non mi pento: perfino i miei errori non sanno raccontare che dell’immensità del mio cuore.
Ebbene, ora anche quel porco del guerriero valente avrebbe pagato. Perché quello sì, fu un errore. Perché nei rapporti umani ciò che non è reciproco avvelena come cicuta.
Ma come sono disponibile a non giudicarmi per i miei errori, sono disponibile anche a rimediare. E proprio per rimediare sono qui, colmando solo per me un delicato calice di idromele, bevendo agli dei che non mi hanno salvata. Forse perché non avevo bisogno di loro.
Per questo, per assistere allo spettacolo sfolgorante che ho allestito in mio onore, sosto qui sull’erboso colle nell’ora che ho calcolato come propizia, mentre una brezza leggera mi accarezza la pelle del viso facendomi socchiudere gli occhi di piacere. La visibilità, già collaudata, sulla piazza adornata a festa è perfetta. Il riverbero della luce del sole su ampolle e vassoi dorati della bottega profumata dello speziale segnerà l’ora della danza ufficiale, in cui la principessina amata dal suo popolo, pura e delicata come una rosa chiara, al rintocco primeggerà nell’abito sontuoso e nuovo che si addice alla nobile futura sposa.
Quando il generale Pausania, per salvarsi dalla pena capitale, si rifugiò nel tempio di Atena Calcièca come supplice, gli spietati efori, che non potevano arrestarlo nel tempio, non cercarono in tutti i modi di farlo uscire. No… gli efori assecondarono il suo rifugiarsi: murarono le porte del tempio e ne fecero crollare il tetto, così che il crudele generale atrocemente morisse di stenti, esposto al tormento del cielo aperto.
E così io: non supplicherò il mio eroe di tornare tra le mie braccia, non dirò la verità alla tenera principessa, non impedirò le nozze di Giasone. Al contrario, porgerò il mio dono ai novelli sposi.
Per questo la fanciulla, bella e divina come una ninfa, sente ora le zone più sensibili della sua pelle bruciare da perdere il senno, ustionarsi fino a sciogliersi e diventare tutt’uno col tessuto prontamente avvelenato in un bagno d’acido dalla previdente Medea. Gli astanti in piedi, qualcuno fugge preda dell’orrore più ottenebrante, le grida cominciano a levarsi, i genitori invocano forte la pietà degli dei, le lacrime ne deformano i volti.
La vedo qui dal colle contorcersi, cercare di staccare i veli dalla schiena bella come quella di una statua, dai capezzoli delicati del seno eburneo, ottenendone solo di sfregiarsi anche le dita, gli occhi glauchi fuori dalle orbite, cerchiati di rosso che sprizza, increduli e imploranti rivolti verso il guerriero che avrebbe promesso di proteggerla per la vita. L’innocente principessina, che proprio non capisce cosa le stia accadendo e forse comincia a sentirsi morire, con l’eterea bellezza corrodersi, vomitando in ginocchio come se potesse salvarla, le guance dalle proprie unghie trafitte.
Trafitte e liquefacendosi lentamente, e con loro tutti i sogni del mio maestoso guerriero valente, amore mio, ingrato.
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